Perché serve un'Europa visionaria che guidi la rivoluzione del lavoro

L'inizio del semestre europeo di presidenza italiana ha coinciso con la realizzazione di un documento programmatico di grande respiro e anche con una riflessione sulle politiche europee sul digitale, che culmina con la cosiddetta "Venice declaration". Come si è avvertito da più parti è necessaria una profonda riflessione, a livello europeo oltre che strettamente nazionale, anche per identificare il "futuro del lavoro" nel prossimo decennio, così da indirizzare in modo congruo le politiche sociali ed educative, ma anche per comprendere le condizioni necessarie che sono da realizzare per far sì che la società del 2030 abbia standard di qualità della vita più elevati degli attuali.
Infatti, se è certamente vero che in una società globale come la nostra i contagi e le influenze dai Paesi extraeuropei sono un dato di fatto, così come la concorrenza economica, gli scenari si costruiscono con le scelte politiche nei diversi settori socio-economici. E quindi rimane sempre vero che il nostro futuro è quello che siamo in grado di costruire.
Futuro del lavoro e lavoro del futuro
Ciò che, infatti, sembra emergere in modo evidente è che l'ottimismo tecnologico del Novecento, per cui una maggiore produttività grazie alle tecnologie avrebbe portato maggiore ricchezza e quindi permesso la rimodulazione dei posti di lavoro perduti con l'automazione, non è più realistico. E non lo è perché il costo dei servizi e dei prodotti si riduce e perché la concorrenza globale induce immediatamente la corrispondente riduzione dei prezzi. Maggiore produttività e maggiore automazione si traducono in minore ricchezza percentuale.
Ci vuol poco per far risorgere le condizioni di esistenza del luddismo, come si sta vedendo, a livello internazionale, per le reazioni a diffusioni di app innovative, e dirompenti dal punto di vista organizzativo e normativo, come Uber. Ma, d'altra parte, la penetrazione delle tecnologie in tutti gli ambiti di lavoro richiede un maggiore livello di competenza da parte dei lavoratori nei diversi livelli organizzativi, una competenza che ha le caratteristiche specifiche di richiedere un sempre costante aggiornamento, non tanto per procedere nella specializzazione, ma per rimanere adeguata e utile, accompagnata ad una innovazione profonda dei processi organizzativi e produttivi che rimoduli il lavoro.
Lo spettro della rapida obsolescenza delle competenze, sommata alla perdita di lavori a basso contenuto di conoscenza, grazie alle tecnologie digitali e all'automazione, fa sì che lo scenario sempre più probabile sia quello dell'espulsione dal mondo del lavoro di un numero elevato di persone, per lo più di una fascia di età over 50. Ed è questo lo spettro principale che bisogna combattere, ripensando la nuova società pervasa dal digitale.
Credo che su questo punto sia emblematico il finale di un film "visionario" del 1971 (NP. Il segreto) in cui gli operai non più "utili" perché il processo produttivo è stato del tutto automatizzato, e nonostante la ricchezza creata da questa automazione, vengono soppressi in massa. Per questa ragione il tema dell'evoluzione delle competenze è precondizione di qualsiasi politica di sviluppo economico.
Su questa linea si erano espressi già nel 2011 Brynjolfsson and McAfee nel loro libro "Race Against the Machine" per affermare come l'accelerazione del progresso tecnologico poteva avere un effetto nullo o devastante a livello sociale se non governato, come rischia oggi di avvenire. E anche per loro l'unica risposta possibile era quella di investire nel sistema educativo, insieme a una forte spinta all'innovazione organizzativa.[...]
(Fonti: Agenda Digitale EU ; SISTEMA PUGLIA, Regione Puglia)
- Blog di Nicola Sinisi
- Accedi o registrati per inserire commenti.
3 commenti
obsolescenza delle competenze
obsolescenza delle competenze e bassi livelli di istruzione universitaria rischiano di farci perdere definitivanente il confronto in UE, come già i dati dimostrano, collocandoci in coda a molti indicatori. l'impressione è però che da sola l'istruzione non possa invertire la rotta. in un contesto di bassa occupazione anche intellettuale, di potere di perdita di potere di acquisto dei salarie di calo della domanda, in poche parole in recessione, mancheranno investimenti nel settore. ma, sopratutto, manca una visione, appunto. magari che rinegozi il valore della riproduzione ( nacere, vivere, curarsi o invecchiare bene) in un diverso rapporto con la produzione, per una rimotivazione culturale e sociale dei processi. a cosa serve altrimenti la conoscenza? magari metterndo al centro l'impatto sugli ecosistemi. il rischio maggiore delle politiche di settore, come è l'istruzione, è di non considerare che oramai siamo in un sistema globalizzato non solo nei processi produttivi e finanziari ( e nella comunicazione e produzione della conoscenza) , ma anche nelle componenti reali dello sviluppo: istruzione, ambiente, produzione, finanza, culture sociali e di genere.
Dal Web Semantico agli Open Data: un passo indietro necessario
Think Linked
E che lingua parleranno gli operai esuberanti in Europa ?
Un paio di anni fa mi aveva colpito, tra gli obiettivi della Strategia europea per il 2020, quello relativo all'istruzione terziaria: nel 2020 la quota di trentenni laureati dovrà andare da un minimo del 27%, in Italia e Romania, fino ad un massimo del 50% in Francia. Usando i dati Eurostat ed il pallottoliere, mi ero accorto che per l'indicatore in questione anche se gli obiettivi saranno raggiunti lo scarto dell'indice italiano dalla media europea nel 2020 sarà maggiore che nel 2001.
Può trattarsi di un arretramento pianificato, magari inconsapevolmente, o soltanto della messa in sicurezza del risultato da raggiungere. E' certo che un governo del cambiamento è indispensabile ma è il caso - anche per noi operai della conoscenza - di stare attenti a chi e come governa in nostro nome i processi di innovazione tecnologica ed aggiornamento delle competenze.