Dove va, il lavoro?

letto 2075 voltepubblicato il 13/10/2010 - 16:40 nel forum Forum generale, in Servizi per l'Impiego

Non ho le competenze per rispondere a questa domanda, e non credo che una spiegazione chiara sia proprio dietro l'angolo...

Ma è difficile non notare come, negli ultimi tempi, il “sistema lavoro” nel suo complesso (le relazioni industriali, il sistema diritti/doveri, e varie forme consolidate di regolazione dei rapporti lavorativi) stia attraversando un profondo mutamento. Mi sembra si stia entrando in un'era di relazioni industriali di lavoro intensivo, con la rinegoziazione di diritti acquisiti motivata dalla priorità assoluta degli obiettivi economici in un contesto globale. Peraltro, in crisi a sua volta.

Sarà la crisi economica mondiale, sarà il gioco dei vari opportunismi politici, sarà l'impreparazione ad affrontare la nuove regole del gioco...
Fatto sta che affiorano forme nuove di taylorismo (il modello organizzativo dominante nei primi anni del secolo scorso, quello così ben tratteggiato - e criticato - da "Tempi Moderni" di C.Chaplin). E non vedo in giro un dibattito sistematico su come affrontare questa nuova fase.

Ad esempio, mi fa molto riflettere questo commento di a proposito delle scelte di Sergio Marchionne: "Il problema della Fiat è un problema nazionale. Se deve competere con Audi, Mercedes, Toyota, continuare a produrre a Mirafiori con svantaggio la condanna a chiudere. E, con lei, perdiamo tutti. Quindi: sì a nuove relazioni sindacali".
A parte che una "gara al ribasso" non è una scelta automatica, a quali nuove relazioni sindacali si fa riferimento?

Ecco, in questo thread mi piacerebbe che ci potessimo confrontare liberamente su questi temi - certamente più ben più ampi di quelli strettamente connessi al'operatività dei Servizi per l'Impiego. Ma personalmente sono convinto che questi fenomeni, in cui siamo immersi sia come professionisti che come singoli cittadini, influenzano ed influenzeranno sempre più le dinamiche del mercato del lavoro: la disponibilità e qualità delle offerte di lavoro, i vincoli contrattuali da sottoscrivere, le motivazioni e i comportamenti degli utenti dei CpI.

Quindi, giro a voi la domanda: dove va, il lavoro?

2 commenti

Stefano Fiaschi

Stefano Fiaschi13/10/2010 - 23:15
E mi sembra particolarmente illuminante, per provare ad immaginare "cosa ci aspetta" nel prossimo futuro, anche il recente Rapporto ILO "World of Work Report 2010-from one crisis to the next?" Un breve stralcio (allego poi la sintesi, in italiano, e il Rapporto completo, in inglese) --- A tre anni dall’inizio della crisi finanziaria, l’economia mondiale ha ricominciato a crescere e alcuni paesi hanno addirittura registrato incoraggianti segnali di ripresa dell’occupazione, in particolare in Asia e in America Latina. Nonostante questi successi significativi, nuove ombre sono apparse all’orizzonte e le prospettive dell’occupazione sono peggiorate significativamente in numerosi paesi. Nelle economie avanzate, si prevede che l’occupazione ritornerà ai livelli pre-crisi soltanto nel 2015 e non più entro il 2013 (data ipotizzata nel Report dell’anno scorso). Più sarà lunga la recessione del mercato del lavoro, più sarà difficile per i disoccupati trovare un nuovo impiego. Nei 35 paesi per cui sono disponibili dati, circa il 40 per cento delle persone in cerca di lavoro è disoccupato da più di un anno e rischia di demoralizzarsi, perdere stima in se stesso e avere problemi psicologici. Ancora più importante, i giovani sono stati colpiti in modo sproporzionato dalla disoccupazione e, anche laddove riescono a trovare un lavoro, si tratta spesso di impieghi precari e che non corrispondono alle loro competenze. A causa di questa crisi prolungata, molti disoccupati si sono scoraggiati a tal punto da uscire del tutto dal mercato del lavoro. Alla fine del 2009, nei paesi esaminati, oltre 4 milioni di disoccupati avevano smesso di cercare attivamente un lavoro. Il Rapporto indica infine anche una "via d'uscita sostenibile alla crisi", proponendo un triplice approccio in cui tutti gli elementi si rafforzino vicendevolmente. 1) In primo luogo, rafforzando le politiche per l’impiego per ridurre il rischio di un aumento della disoccupazione di lungo periodo e dell’informalità. 2) Secondariamente, impostando il passaggio nei paesi eccedentari da una crescita imperniata sull’indebitamento ad una crescita trainata dai salari, spianando la strada per la creazione di occupazione sostenibile nei paesi sia deficitari che eccedentari. 3) Infine, adottando una riforma del sistema finanziario, ad esempio attraverso l’adozione di una tassa sulle transazioni finanziarie, i risparmi sarebbero incanalati verso gli investimenti produttivi e l’occupazione diventerebbe più stabile.
Stefano Fiaschi

Stefano Fiaschi13/10/2010 - 23:29
Come prima cosa, reinserisco qui il prospetto di Foreign Policy che, in occasione del “Labor Day” (la festa del lavoro statunitense, che si tiene ogni primo lunedì di settembre), presenta un elenco dei vari paesi nel mondo in cui lavorare è un’esperienza peggiore: quelli dove i lavoratori hanno meno diritti, quelli dove i lavori forzati sono la norma.

# Arabia Saudita # Non ci sono partiti politici, sindacati o scioperi. Ancora più drammatico è il modo in cui sono trattati i lavoratori immigrati, praticamente degli schiavi, maltrattati al punto da commettere reati allo scopo di essere espulsi e deportati nel loro paese di origine. # Bielorussia # In teoria, la Costituzione dell’ultima dittatura d’Europa protegge i diritti dei lavoratori di costituirsi in sindacati. In pratica, la legge sui sindacati promulgata nel 2000 e i successivi decreti presidenziali hanno reso l’atmosfera molto pesante, e qualsiasi protesta pacifica porta ad arresti e maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine ai danni dei sindacalisti. L’unico sindacato che se la passa bene è quello promosso dal governo, che esercita pressioni e ricatti sui lavoratori: e sono pressioni facili da esercitare, visto che il novanta per cento dei lavoratori bielorussi ha contratti a termine e il governo può licenziarli in qualsiasi momento. La contrattazione collettiva non esiste, e i tribunali semplicemente ignorano le occasionali denunce dei lavoratori. # Birmania # La contrattazione collettiva e gli scioperi sono illegali così come i sindacati, i cui leader passano più tempo in prigione che fuori. I lavori forzati sono ancora una pratica comune, spesso ai danni delle minoranze etniche. Bambini, anche con meno di 13 anni, sono costretti a lavorare in cantieri edili e prestare servizio militare. # Corea del Nord # Il lavoro è obbligatorio, e chi non soddisfa gli standard richiesti viene mandato per cinque anni in un campo di rieducazione. Se recidivo, c’è la condanna a morte. Lo stipendio è occasionale, nel senso che a volte arriva e a volte no. # Cuba # La rivoluzione del 1959 cancellò i diritti dei lavoratori in una società che aveva un grande attivismo sindacale. Ancora oggi la legge cubana proibisce del tutto gli scioperi, e chi fa parte di sindacati indipendenti va incontro al licenziamento e spesso anche all’arresto: molti degli attuali prigionieri politici sono stati detenuti proprio sulla base del loro attivismo sindacale. Lo stato controlla il mercato del lavoro, e quindi anche le condizioni e gli stipendi delle persone. Il salario minimo nel 2008 era di circa nove dollari al mese. I lavoratori sono costantemente invitati a tenere d’occhio i loro colleghi e segnalare eventuali attività “dissidenti”. # Eritrea # Tutti i cittadini – non solo i detenuti – possono essere sottoposti in qualsiasi momento ai lavori forzati, ogni volta che il governo abbia bisogno di manodopera per questa o quella costruzione. Chi cerca di sottrarsi viene arrestato e multato, e così le loro famiglie. Il governo sostiene che questa misura è necessaria perché il paese sia pronto ad affrontare una guerra con l’Etiopia, ex paese colonizzatore. # Guinea Equatoriale # Il dittatore Teodoro Obiang Nguema qualche anno fa disse all’Organizzazione Internazionale del Lavoro che “qui non abbiamo sindacati perché non abbiamo mai avuto sindacati, non abbiamo questa tradizione”. Lo scorso novembre è stato rieletto col 96 per cento dei voti, e lui e i suoi continuano a fare soldi a palate con la vendita del petrolio. Gli abitanti del paese invece vivono con meno di un dollaro al giorno. # Laos # Un governo, un sindacato, entrambi facenti riferimento allo stesso unico partito, quello comunista: con una mano vessa i lavoratori, con l’altra fa finta di difenderli. In teoria la legge prevede sia la contrattazione collettiva che la possibilità di lavorare nel settore privato, ma in pratica si tratta di miraggi. # Libia # Una delle prime vittime del golpe che portò Gheddafi al potere nel 1969 fu proprio il sindacato, con la repressione della libertà di associazione. Oggi gli scioperi sono illegali, il governo determina stipendi e orari. Un terzo della forza lavoro è costituito da immigrati stranieri, discriminati in modo sistematico. # Siria # Anche qui sindacato e governo dipendono dall’unico partito di governo. I giornalisti che si occupano di mercato del lavoro vengono minacciati e invitati a non occuparsi di materie sensibili, e d’altra parte il sindacato nazionale – e governativo – pensa a tutto meno che a prendere le loro difese. Chi organizza uno sciopero finisce in prigione. # Sudan # Il regime del presidente al-Bashir deve dare il proprio assenso, affinché i lavoratori possano scioperare: e questo non avviene mai. Nessuna contrattazione collettiva, gli aderenti ai sindacati indipendenti vengono perseguiti e arrestati. Chi lavora nell’industria del petrolio vive sotto la sorveglianza dell’intelligence e ha scarsa libertà di movimento. Il lavoro forzato è una pratica comune, così come l’arruolamento forzato di uomini e ragazzi nelle forze armate e la schiavitù sessuale di donne e ragazzine. # Turkmenistan # Fin dalla sua indipendenza dalla Russia, nel 1991, il Turkmenistan ha conseguito record su record in quanto a elezioni truccate, repressioni della stampa libera e marginalizzazione della società civile. La corruzione è ovunque, la proprietà privata è stata introdotta poco tempo fa. Potete immaginare come se la passano i sindacati, nelle mani del governo. La buona notizia è una legge sul divieto dei lavoro dei bambini nelle piantagioni di cotone, approvata nel 2009. # Uzbekistan # Sebbene in teoria la legge permette la costituzione di sindacati indipendenti, la loro attività è strettamente controllata dal regime di Karimov, l’ex gerarca sovietico poi convertitosi all’islam che governa il paese dal 1990. La legge proibisce anche i lavori forzati, che invece sono una pratica piuttosto comune. # Vietnam # Qui di diritti ce ne sono un sacco, a scorrere le leggi: dalla contrattazione collettiva agli scioperi, fino ai sindacati indipendenti. Nella realtà le cose sono piuttosto diverse, e di quei diritti godono pochissime persone. La maggior parte dei lavoratori è affiliata al grande sindacato governativo. Organizzare uno sciopero si può, ma le procedure burocratiche sono tante e tali da renderlo proibitivo. Oggi gli scioperi e le proteste clandestine aumentano e il governo chiude un occhio, visto che molte hanno come bersaglio aziende del settore privato. [ Fonte : ilPost.it ]